Cambiamenti climatici: quali strumenti in mano ai frutticoltori?

da Redazione FruitJournal.com
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Con Andrea Grassi, direttore innovazione e sviluppo dell’impresa cooperativa Apofruit Italia, approfondiamo l’incidenza dei cambiamenti climatici sulla frutticoltura, cercando di individuare gli strumenti in mano ai frutticoltori .

La morsa sempre più stretta dei cambiamenti climatici sta determinando importanti stravolgimenti anche nel settore frutticolo.

Tra nuovi areali produttivi che iniziano ad affacciarsi sul mercato, eventi estremi che incrinano la produzione e patogeni fino a ieri sconosciuti in aumento, la sfida si fa complicata e per vincerla occorrerà puntare su programmazione, innovazione e qualità.

Ne abbiamo parlato con Andrea Grassi, direttore innovazione e sviluppo dell’impresa cooperativa Apofruit Italia nell’ultimo numero di Fruit Journal.

Le conseguenze dei cambiamenti climatici sono sempre più evidenti, ma quali sono i maggiori rischi per il comparto frutticolo e, in particolare, per la frutticoltura del Sud Italia?
Il cambiamento climatico è un fenomeno ormai noto a tutti e ogni giorno ne vediamo gli effetti. Tra questi, il principale è il riscaldamento delle temperature a livello globale che, a sua volta, si trascina una serie di fenomeni, come per esempio le ultime gelate tardive. Accanto a questi fattori estremi, si stanno verificando cambiamenti anche in termini di dinamiche stagionali ed eventi meteorologici. Stiamo andando verso una tropicalizzazione del nostro clima: potrebbero quindi verificarsi sempre più frequentemente periodi di lunghissima siccità alternati a stagioni di tipo monsonico, con forti venti, trombe d’aria e piogge violente. Tutti fattori che inevitabilmente comportano problemi ambientali, ma anche agronomici.

Per quanto riguarda la frutticoltura, uno dei principali problemi riconducibile ai cambiamenti climatici è legato alla frequenza di inverni sempre più miti. Di conseguenza, nelle aree calde come quelle del Sud Italia, per molte colture potrebbero non essere soddisfatte le ore di fabbisogno di freddo, con conseguenti problemi di produttività. Si pensi, per esempio, all’albicocco o al kiwi. Questo vuol dire che areali del Nord Italia potrebbero avvantaggiarsi in questo senso, avendo inverni con più ore di freddo. Pensiamo a quanto sta accadendo per l’uva da tavola che si sta sviluppando in areali dell’Italia settentrionale.
Proprio la maggiore frequenza di inverni miti, tra l’altro, implica il verificarsi di gelate tardive, con danni ingenti alle coltivazioni in seguito alla ripresa vegetativa anticipata delle colture.

In tal senso, abbiamo sempre più problemi con la concorrenza di Paesi come Grecia, Spagna, Algeria, Marocco, Tunisia: tutte realtà che stanno entrando in competizione con i prodotti del Sud Italia e che possono sfruttare a proprio vantaggio la sempre maggiore disponibilità di prodotti adatti ai loro climi e il basso costo della manodopera.

D’altra parte, specie per il Sud Italia, sono diverse le opportunità che si stanno aprendo, proprio in relazione ai cambiamenti climatici. Tanto che se parliamo della Puglia, un fattore limitante alla crescita produttiva regionale non è tanto la questione climatica, quanto la problematica idrica. Al momento, infatti, il fattore più limitante per tutta l’agricoltura è la disponibilità di acqua. In tal senso, esemplificativo è il caso della Calabria che, proprio grazie alla grande disponibilità di acqua, sta registrando un grandissimo sviluppo, con un aumento notevole di coltivazione di kiwi, pesche, agrumi, piccoli frutti, frutti tropicali, e altri ancora. Lo stesso in Sicilia, dove si stanno piantando innumerevoli nuove specie.

A proposito di Sicilia, ultimamente si osserva l’avvio di produzioni di frutti tropicali nell’Isola o in altre realtà del Sud Italia riconducibili agli effetti dei cambiamenti climatici.

L’innalzamento delle temperature permette alle regioni meridionali di aprirsi anche a queste nuove colture. Tuttavia, è bene sottolineare che ci sono degli aspetti problematici. Innanzitutto, sono tutti materiali genetici non specifici per i nostri territori e purtroppo la sperimentazione viene condotta direttamente dalle aziende agricole. Queste sicuramente sostengono dei costi, ma non sempre giungono a risultati economici soddisfacenti, perché se si sbaglia il portinnesto o la varietà, si rischia un grande fallimento. Inoltre, sono colture che ci mettono anni prima di entrare in piena produzione.

Abbiamo visto l’arrivo del melograno a Sud come coltura innovativa, ma i risultati non hanno confermato le aspettative, perché quando si fanno questi progetti – ed è un problema tutto italiano – manca sempre la progettualità dell’intera filiera. Il problema non è solo produrre. Oggi, grazie alle conoscenze tecniche, alla possibilità di avere accesso un po’ a tutto il materiale innovativo in giro per il mondo e di confrontarsi con esperti a livello mondiale, produrre è forse la cosa meno difficile.

Il vero problema è un altro: dopo aver messo a dimora degli impianti, dopo aver iniziato a produrre, abbiamo creato la filiera del prodotto? E quando si parla di filiera, bisogna parlare di raccolta, immagazzinamento, lavorazione, conservazione, mercati: tutto un lavoro di progettualità che manca. Quando si parla di queste cose viene l’orticaria.

Prima di piantare anche una sola pianta, devo capire se quella pianta ha una sostenibilità, un futuro.

Gran parte dei fallimenti di questi progetti è racchiuso qui: bisogna fare progetti su larga scala. Prima di tutto svolgere un’indagine di mercato: qual è il mercato di riferimento? Quali potenzialità di assorbimento del prodotto ci sono per mantenere un pezzo sostenibile?

Il mercato ha la legge più semplice che esista: ogni volta che offro qualcosa, dall’altra parte ci deve essere qualcuno che ne ha necessità. Se l’offerta è inferiore alla domanda, per avere il prodotto il consumatore è disposto a pagare di più. Nel momento in cui metto nel mercato una quantità di prodotto più alta rispetto alla richiesta del mercato, il consumatore ha la possibilità di scegliere, a parità di prezzo, il prodotto migliore o viceversa, a parità di produzione, compra quello che costa meno.
Una logica semplicissima, ma che in agricoltura non viene mai presa in considerazione. Ma se parliamo di cambiamento climatico, è necessario cambiare approccio. Sono due anni che il clima mette in ginocchio l’agricoltura nazionale, con eventi catastrofici. Senza considerare problemi come la PSA del kiwi o la difficoltà di produrre agrumi al Sud, tutti legati al cambiamento climatico. Così, oltre a mancare un adeguato supporto scientifico, pecchiamo anche nella parte tecnico-produttiva.

Presto o tardi, però, sarà un problema con cui dovremo fare i conti tutti quanti: se non siamo un po’ più reattivi e dinamici nel comprendere cosa sta succedendo e nell’adattarci a quello che viene senza pretendere che sia il sistema ad adattarsi a noi, noi soccombiamo.

A tal proposito, secondo un recente studio della FAO, ogni anno il 40% della produzione agricola mondiale viene persa a causa di nuovi patogeni che, proprio a seguito dei cambiamenti climatici, si spostano dai loro habitat naturali, favorendo l’insorgenza di nuove malattie.
Questo aspetto che sta sollevando è fondamentale. Come sappiamo, il cambiamento climatico non ha solo conseguenze a livello di temperature e stagioni. Basti pensare all’aumento delle cavallette a livello mondiale che da ormai due anni, in Sardegna, devastano le produzioni. O all’arrivo della cimice asiatica che nelle regioni del Nord Italia sta diventando una delle sette piaghe d’Egitto. Ancora: la Drosophila suzukii, la Popillia japonica, nuove cocciniglie, gli ulivi colpiti da Xylella fastidiosa in Puglia: sono tutti eventi legati al cambiamento climatico. Senza tralasciare la moria del kiwi, forse la prima vera problematica direttamente ascrivibile al cambiamento climatico, o le enormi siccità: basti pensare agli incendi che si stanno verificando a più riprese, con decine di migliaia di ettari devastati.

Per risolvere questo problema non bastano le dichiarazioni di Parigi o gli accordi di Tokyo.

Dovremmo fare ricerca, ricominciare a ripensare ad alcune strategie, trovare varietà tolleranti, capaci di sostenere eventi estremi. Specialmente se parliamo di frutta: da quando si realizza un incrocio a quando riusciamo ad avere prodotto mercantile, infatti, intercorrono mediamente dai 10 ai 20 anni, nel caso del pero addirittura dai 20 a 30 anni.

È possibile individuare dei nuovi areali che potrebbero in qualche modo minacciare le finestre di mercato del sud Italia?
Ci sono battaglie che abbiamo già perso. Parlavamo di pesche e nettarine, in questo caso abbiamo perso con la Spagna. Questo non vuol dire che non possiamo più produrre pesche e nettarine, ma che sarà difficile tornare a essere la nazione leader in Europa. Non solo: i consumatori oggi sono evoluti, pretenziosi e sempre più attenti a diversi aspetti, primo fra tutti la bontà del prodotto. Noi ci siamo dimenticati per troppo tempo che la nostra frutta non era un semplice bene economico di scambio, ma qualcosa che va mangiato e che possiamo definire edonistico: la frutta deve donare piacere e per fare questo deve essere soprattutto buona da mangiare. Bisogna cominciare a pensare di fare produzioni di qualità, buone da mangiare. E non basta, perché il consumatore non richiede solo che siano buone, ma anche che rispettino certi parametri.

Basta guardare i mercati: un anno come il 2021 dove mancano mediamente dal 50 al 60% di pesche, nettarine e albicocche, sui banchi dell’ortofrutta ci sono alcuni prodotti che vengono venduti a caro prezzo.

Contestualmente, però, gli stessi banchi vendono prodotti di qualità medio-bassa, che pur costando molto poco, non vengono comprati o vengono buttati via. Siamo al paradosso: in un anno in cui manca il prodotto, ci sono albicocche o ciliegie non consumate. E questo perché il consumatore non è più disposto a pagare per un prodotto che non lo soddisfa a livello qualitativo e a livello etico-produttivo. Non si tratta solo di prezzi, ma anche di sostenibilità ambientale, sociale e salvaguardia della salute. Da questo punto di vista noi siamo capaci di avere prodotti di qualità e sostenibili. È una battaglia che possiamo combattere, perché in termini di conoscenze, tecniche, capacità e professionalità sul territorio non siamo secondi a nessuno.

Ma se continuiamo ad andare dietro a quello che fa la massa o i nostri diretti competitori (Spagna, Grecia, alcuni Paesi del Nordafrica), dove le spese e i costi della manodopera sono più bassi, noi non saremo mai competitivi. Bisogna uscire da questa logica, ma per fare questo ci vuole preparazione, conoscenza imprenditoriale, non siamo più i lavoratori della terra, i “contadini” di un tempo. Dobbiamo essere fautori di un sistema produttivo innovativo, sostenibile, che guarda avanti: se facciamo questo, è una battaglia che vinciamo. Se rincorriamo gli altri, bene che vada arriviamo secondi e io sfido chiunque a ricordare i secondi di una gara.

Ilaria De Marinis
© fruitjournal.com

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