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In Paesi come il Giappone, la frutta è da sempre considerata un bene di lusso. Ed è ormai frequente ritrovarsi di fronte a notizie di prezzi da capogiro corrisposti a frutti che, diversamente, in Italia rasentano i centesimi. Non fa eccezione quella giunta qualche giorno fa in merito a due meloni battuti all’asta per 3 milioni e mezzo di yen, una cifra equivalente a 23.300 euro.
Si tratta di due meloni dell’Hokkaido, la prefettura più a nord del Giappone, che sono stati venduti alla prima asta della stagione per 3 milioni e mezzo di yen. Un prezzo inferiore solo a quello record di 5 milioni di yen fatto segnare nel 2019. Come si diceva, però, la notizia non sorprende, giungendo da una realtà come quella giapponese dove i frutti, per quasi l’80 % importati, vengono considerati a pieno titolo beni di lusso. Specialmente quando si tratta di frutti di fascia alta che, proprio durante le aste locali, raggiungono prezzi elevati anche per ragioni commerciali. Le aste, infatti, si traducono spesso in campagne commerciali volte a promuovere le specialità locali, come nel caso dei meloni dell’Hokkaido. Inoltre, come vuole la tradizione, il vincitore dell’asta, la Hokuyupack, distribuirà i meloni gratuitamente a circa 200 persone. In base alle stime del consorzio locale nella cittadina di Yubari – famosa per i frutti più succosi della regione, gli agricoltori della zona produrranno circa 3.258 tonnellate di meloni quest’anno, per un valore del fatturato pari a 1,9 miliardi di yen (12,6 milioni di euro).
Insomma, una realtà ben diversa da quella italiana, dove – al contrario – i meloni non spuntano prezzi superiori ai 40 centesimi al kg.
Fatta salva la profonda differenza culturale nella considerazione della frutta fra Oriente e Occidente, resta dunque un senso di amarezza di fronte a quotazioni così basse. Specialmente per i produttori dell’areale agrigentino, come Licata e Palma di Montechiaro, che all’avvio della campagna hanno registrato prezzi oscillanti tra gli 0,20 – 0,40 euro al kg, senza considerare l’invenduto per i meloni Cantalupo e le mini angurie a causa delle temperature inferiori rispetto alla media che hanno frenato i consumi. Un andamento che non soddisfa neanche oggi i produttori, che – nonostante l’avvio della stagione estiva – continuano a vedere le quotazioni scendere, attestandosi attorno ai 10 centesimi al chilo. Cifre che chiaramente non bastano nemmeno a recuperare i costi di produzione, ad oggi stimata attorno agli 80 cent al chilo.
Se quello del Giappone rappresenta un caso singolare, è altrettanto vero che il quadro italiano non lascia ipotizzare prospettive quantomeno più redditizie.
E questo nonostante il Bel Paese si avvicini sempre di più alla Spagna, coprendo insieme al Paese iberico e alla Francia il 78% della produzione europea. Non solo: se si osservano i dati, il comparto del melone italiano è fra quelli che gode di buona salute. E questo anche grazie al fatto che le superfici e i volumi prodotti in Italia sono pressoché stabili da circa un decennio, senza registrare – a differenza di altri comparti – un calo drastico. Aspetto, quest’ultimo, sicuramente favorito dalla grande specializzazione che si è realizzata lungo lo Stivale, dove si sono sviluppati poli produttivi d’eccellenza. A partire dalla Sicilia, prima regione a livello di coltivazione che, con la sola provincia di Agrigento, lo scorso anno ha raggiunto oltre 9 mila ettari in produzione, circa il 40% di quanto coltivato in Italia. Segue la Lombardia, con quasi 3 mila ettari dedicati alla produzione di meloni, in larga parte siti nel Mantovano. Un territorio che dal 2013 ha ottenuto la certificazione I.G.P. facendone, ad oggi, l’unico melone italiano che può fregiarsi del riconoscimento europeo. Dopo la Sicilia e la Lombardia, che da sole producono la metà dei meloni coltivati in Italia, vi è una cinquina di regioni – Puglia, Campania, Emilia-Romagna, Lazio e Veneto – che, con oltre 1.000 ettari a testa, contribuiscono alla crescita di questo interessante comparto.
Ilaria De Marinis
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