Dalla coltivazione del fico d’india alla produzione di biogas, mangimi e farine: si potrebbe sintetizzare così la storia di Wakonda S.p.A., società agricola del Leccese ora startup innovativa nel campo dell’agricoltura.
Nata nel 2021, Wakonda S.p.A. è la prima società in Europa che si occupa della coltivazione del fico d’india e della sua trasformazione per l’ottenimento di energia, alimenti e mangimi zootecnici.
Una realtà sui generis per la Puglia, ma che potrebbe presto diventare modello per un’agricoltura incentrata sui valori della sostenibilità ambientale e dell’economia circolare.
A raccontarla a Fruit Journal, Andrea Ortenzi – Presidente del consiglio di amministrazione di Wakonda – e Fabrizio Sibilla – direttore tecnico e responsabile dei processi di trasformazione.
Come nasce l’idea di avviare questa attività e a cosa si deve la scelta del fico d’india?
La fortuna ci ha fatto incontrare. All’inizio lavoravamo entrambi come consulenti per due aziende distinte che però collaboravano tra loro per la realizzazione di un progetto finalizzato alla produzione di biogas ottenibile da matrici vegetali. Lavorando insieme a questo progetto – che poi non ha trovato seguito – abbiamo iniziato a confrontarci sull’idea comune di voler realizzare la prima bio-raffineria a fico d’india che sfruttasse non i frutti, bensì le cosiddette pale.
Chiuso il capitolo come consulenti, nel 2021 abbiamo quindi deciso di acquistare un terreno di 41 ettari nel Leccese. Siamo partiti da un terreno poco fertile sul quale erano precedentemente coltivati ulivi, distrutti da Xylella fastidiosa. La scelta non è stata casuale: avevamo la possibilità di comprare dei terreni più fertili e più promettenti, ma volevamo dimostrare come la pianta del fico d’india potesse funzionare anche in un ambiente siccitoso e ben più ostico.
Prima di iniziare, però, ci siamo documentati e abbiamo anche effettuato degli studi di mercato. Questi, in particolare, ci hanno portato a scoprire come per esempio in Messico e negli Stati Uniti, una nota catena di discount statunitense – Walmart – promuove la vendita dell’Aqua de Nopal. Si tratta di una sorta di succo di fico d’India che può anche essere aromatizzato e dalle ottime proprietà salutistiche. Essendo ricca di calcio, infatti, l’Aqua de Nopal può essere considerata un’alternativa al latte, che può essere consumata anche dai vegani e da chi ha intolleranze al lattosio.
Dopo attente analisi ed elaborazioni, Fabrizio – che nasce come tecnologo alimentare, con alle spalle un dottorato in biotech industriale – si è quindi dedicato allo studio dei prodotti ottenibili dal fico d’india.
Per quanto riguarda la scelta della coltura, invece, è stata abbastanza naturale, poiché sia io che Fabrizio lavoriamo con il fico d’india dal 2010.
E come noi anche gli altri professionisti che col tempo si sono uniti al progetto. Alcuni di loro, infatti, hanno maturato grande esperienza con la coltura in Brasile, dove la pianta è nota come palma forrageira adensada (palma da foraggio intensiva) e viene utilizzata come cibo per animali per far fronte all’ingente richiesta di foraggio da parte degli allevamenti locali. Qui, i produttori – forti della particolare vocazione della coltura al territorio – sono riusciti a produrre quantità massicce di pale di fico d’india, chiamate tecnicamente cladodi, e sopperire alla mancanza di alimenti per gli animali, tanto da rendere il Brasile primo Paese produttore di carne al mondo.
Al netto di tutti questi elementi, quando abbiamo avviato la startup, i nostri obiettivi erano ormai ben definiti: fornire un’alternativa ai consumatori, garantire mangime agli animali e valutare un possibile utilizzo energetico delle pale di fico d’india.
Nuovi alimenti, mangime per gli animali, biogas: come si arriva a tutto questo?
Le piante di fico d’india sono già state impiantate in pieno campo e prevediamo di effettuare il primo taglio dei cladodi per l’inizio del 2024. Le nostre piantagioni, però, non arriveranno mai a produrre frutti, così da evitare che le energie impiegate per lo sviluppo della parte vegetale vadano disperse. Per produrre i frutti, i cladodi impiegano circa tre anni (periodo improduttivo giovanile di questa pianta). Noi andremo a interrompere la fruttificazione, tagliando una volta l’anno le pale di fico d’india. Un aspetto vantaggioso anche perché nei nostri climi temperati questa coltura germoglia dalle 3 alle 4 volte in un anno. Interrando una pala, questa produrrà dalle tre alle sette pale, sviluppando quindi almeno 27 pale l’anno nelle 3-4 gemmazioni annue. A questo punto, attraverso una particolare raccoglitrice progettata da noi – per minimizzare lo stress subito dalle piante – effettueremo l’operazione del taglio che, nel nostro caso, corrisponderà a quella della raccolta. In seconda battuta, la parte vegetale del fico d’india verrà presa e strizzata, dividendo la frazione liquida da quella solida. Da una parte otterremo il succo; dall’altra un prodotto ricco di proteine. Questo potrà avere diverse destinazioni.
Attraverso la fermentazione delle pale di fico d’india all’interno di un biodigestore appositamente progettato, si potrà ottenere biogas in tempi più ristretti.
Grazie alle proprietà intrinseche della materia prima e alla particolare geometria del biodigestore, che avrà un design più compatto e sostenibile rispetto a quelli tradizionali, si eviterà inoltre l’immissione in atmosfera di più di 11mila tonnellate di CO2 ogni anno. A cascata, otterremo anche migliori performance economiche e un bilancio energetico più favorevole.
Accanto a questo, in linea con quanto avviene già in altri Paesi, vorremmo produrre mangime per uso zootecnico. Più che un semplice foraggio, si tratterà di un integratore proteico che – a seconda della concentrazione di proteine presente – permetterà di soddisfare le differenti esigenze di alimentazione di più specie animali e in diversi stadi di crescita. In questo modo potremmo contribuire a ridurre la lunghezza delle filiere, rendendo il nostro Paese meno dipendente da filiere estere.
Infine, grazie a un processo di disidratazione delle pale di fico d’india, si potrà ottenere una farina con ottime caratteristiche nutrizionali e a basso indice glicemico. Non solo: grazie alla presenza di particolari fibre, i prodotti ottenuti dalla lavorazione di questa farina si conservano freschi più a lungo. In più, possono fungere da preziosi alleati contro le cosiddette malattie da benessere, apportando importanti micronutrienti e minerali, tra cui calcio, vitamine, antiossidanti e fibre, utili all’organismo. Per questo, all’interno della nostra azienda abbiamo anche assunto un cuoco specializzato che si dedica proprio alla creazione di ricette per industrie alimentari.
Qual è il business plan aziendale che intendete perseguire?
Nel nostro business plan, l’energia prodotta dal biogas in realtà non rappresenta una importante fonte di reddito, ma è cruciale per abbassare i costi industriali di produzione. Abbiamo fatto costruire un macchinario che – durante il processo di fermentazione delle pale di fico d’india – permette di non disperdere il calore generato nella produzione della corrente e, anzi, di riutilizzarlo per l’azionamento della macchina all’interno della quale avviene l’essiccazione. In sostanza, l’unico costo energetico che abbiamo per l’essiccazione è quello della ventola attraverso cui viene insufflato il calore. In linea con il modello di economia circolare, dunque, si ottengono un abbassamento dei costi energetici di trasformazione e prezzi più competitivi sul mercato.
Inoltre, la produzione non viene meno al principio di sostenibilità ambientale: tutto il processo, infatti, viene effettuato con un’impronta idrica e carbonica molto basse.
In conclusione, cosa c’è da aspettarsi?
La strada da fare è ancora lunga e gli aspetti in gioco sono davvero molteplici. Non a caso, spesso siamo soliti paragonare il nostro lavoro non a quello di un’azienda, ma a quello che si svolge all’interno di un centro di ricerca. In tal senso, ulteriori conoscenze in ambito agrario-genetico legate a questa pianta poco studiata finora, si riveleranno fondamentali per poter rendere estremamente produttivi molti terreni del bacino del Mediterraneo che, complici i cambiamenti climatici e avversità come Xylella, stanno diventando sempre meno fertili e idonei alle colture tradizionali.
In prospettiva, pensiamo che questo sistema sarà implementabile con successo anche nelle aree semiaride dell’Africa – con le quali, di fatto, stiamo già creando delle collaborazioni – favorendo un’importante crescita dell’allevamento locale.
La coltivazione del fico d’india presenta molteplici vantaggi: noi ne abbiamo colti solo alcuni, ma la speranza è che – perseguendo nella direzione di un’economia circolare e di una maggiore sostenibilità ambientale – questo sia solo l’inizio di un lungo e virtuoso progresso.
Donato Liberto
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