Dal tedesco pilzwiderstandfähig che significa “viti resistenti ai funghi”, PIWI è un acronimo che sta a indicare vitigni innovativi ottenuti da incroci tra Vitis vinifera e altre specie di vite, selezionati per la loro resistenza naturale a patogeni come peronospora e oidio, promuovendo una viticoltura sostenibile e rispettosa dell’ambiente.
La viticoltura e la vinificazione hanno un forte ruolo socio-economico per molti Paesi nel mondo. In Italia la coltivazione della vite è una pietra angolare del paesaggio agricolo e contribuisce in modo significativo all’economia e al patrimonio culturale del Paese, con grande attrazione anche del settore turistico. I cambiamenti climatici e la crescente diffusione dei parassiti pongono tuttavia una sfida sostanziale alla gestione dei vigneti. La sempre più stringente regolamentazione relativa all’utilizzo di fitofarmaci sostenuta dall’Unione Europea impatta enormemente sul contenimento delle ampelopatie, rendendo necessaria l’adozione di approcci alternativi. Nel 2023 le condizioni climatiche estreme hanno avuto un’incidenza significativa su tutto il comparto vitivinicolo, culminando nella produzione di vino globale più bassa dal 1961. L’Italia, la prima nazione produttrice di vino al mondo, nella scorsa annata ha dovuto cedere la leadership alla Francia dopo quasi un decennio, registrando un calo del 23% e segnando la produzione più scarsa dal 1950. Oltre ai danni causati da inondazioni e grandine, le ragioni del calo produttivo sono principalmente da ritrovarsi nelle forti piogge che hanno favorito la diffusione della peronospora nelle regioni centrali e meridionali, con perdite comprese tra il 30% e il 70%, con picchi tra il 90-100% nel biologico. In risposta a queste contrastanti necessità, cioè la riduzione dell’uso di fitofarmaci e la difesa dalle malattie, l’utilizzo di varietà di vite resistenti o varietà PIWI emerge come una soluzione assai promettente.
Le “radici” della resistenza: dai portainnesti alle varietà PIWI
Questa strategia in realtà è già in atto da più di un secolo in Europa, più precisamente dal 1863. In quell’anno, infatti, con l’avvento della più rapida navigazione a vapore, venne introdotta dagli Stati Uniti la fillossera (Daktulosphaira vitifoliae), un insetto che rischiò di distruggere la viticoltura europea. Benché i vignaioli si dividessero tra “solforisti” e “americanisti”, furono quest’ultimi a sconfiggere la devastante piaga attraverso lo sviluppo della tecnica del portainnesto, che ancora oggi si avvale di ibridi di viti americane (principalmente derivati da Vitis riparia, V. rupestris, V. berlandieri e V. cinerea) resistenti agli attacchi delle neanidi dell’ insetto sull’apparato radicale. Nello stesso periodo vennero introdotte altre malattie dal Nord America, questa volta causate da funghi o presunti tali: l’oidio e il marciume nero causati dagli ascomiceti Erysiphe necator e Phyllosticta ampelicida, e la peronospora, il cui agente causale Plasmopara viticola venne successivamente riclassificato come oomicete. Anche in questa occasione le varietà europee della specie V. vinifera risultarono altamente suscettibili, mentre le varietà americane mostrarono una resistenza genetica, ereditabile tramite incrocio, probabilmente frutto di un adattamento evolutivo risultante dalla convivenza con patogeni sul continente americano. In questo caso, però, a vincere la sfida furono i vignaioli che si affidarono all’utilizzo di rame e zolfo, molto efficaci nel contenimento di questi patogeni e tuttora essenziali nella viticoltura moderna. D’altronde già nel 1911, durante il Congresso Internazionale del Vino tenutosi a Montpellier (Francia), il fondatore di un impero nel mercato del portainnesto – l’ingegnere agronomo George Couderc – asserì con una lungimiranza che oggi stupisce «Farmaci e rimedi possono essere solo palliativi temporanei. La fillossera fu vinta dalle viti americane e non dal solfuro; la clorosi, da rizomi di terreni calcarei e non da solfato di ferro; i funghi lo saranno prima o poi dagli ibridi che gli resistono, tutto il rame del mondo, del resto non basterebbe dopo qualche secolo».
La storia dell’ibridazione delle viti americane con quelle europee in un certo senso nasce negli Stati Uniti. Qui, infatti, si era già iniziato a usare le viti americane per la produzione di vino.
Ma i risultati non erano soddisfacenti a causa delle scarse proprietà organolettiche. Allo stesso tempo, però, le viti europee avevano problemi di adattamento sia alle condizioni climatiche, che alla pressione delle malattie endemiche. Per questo alcuni pionieri avevano iniziato a incrociare le diverse specie. Fu tuttavia con l’arrivo delle “malattie americane” in Europa che viticoltori e accademici si sono dedicati sistematicamente al miglioramento genetico tramite incrocio controllato (crossbreeding) per le resistenze. Gli ibridi produttori diretti di prima generazione, principalmente di origine francese, portavano però a vini di bassa qualità poiché, essendo incroci di prima generazione tra cultivar di V. vinifera con specie americane (tra cui anche V. labrusca e V. aestivalis), portavano con sé il 50% di patrimonio genetico americano che – come detto – aveva scarse attitudini enologiche. Per questo motivo i breeder si sono quindi concentrati a reincrociare (back-crossing) in generazioni successive gli ibridi resistenti con cultivar di V. vinifera, così da ottenere nuove varietà con una percentuale minima di patrimonio genetico americano sufficiente per mantenere la resistenza, ma eliminando le caratteristiche che rendevano sgradevole i vini. Questa seconda generazione di varietà resistenti, per lo più tedesche, è stata prodotta nella seconda metà del ‘900 e si è fatta conoscere sotto l’acronimo di vitigni PIWI (pilz-widerstands-fähig: letteralmente “resistenti ai funghi”), nome che oggi è utilizzato dal gruppo di lavoro PIWI International per promuovere la coltivazione e la cultura delle varietà resistenti. D’altronde, benché esistano al mondo più di 60 specie di Vitis e circa 6.000 varietà di V. vinifera, solo 33 cultivar coprono più del 50% della superficie vitata mondiale, ma nessuna di queste presenta una forma di resistenza alle patologie più diffuse, rendendo quindi inevitabile l’utilizzo di enormi quantità di fitofarmaci.
PIWI: preconcetti e nuove prospettive
Per esplorare le potenzialità delle varietà di vite resistenti alle malattie fungine, però, è prima di tutto necessario scardinare alcuni preconcetti.
Il primo riguarda la stigmatizzazione del rinnovamento varietale. La conservazione di tradizioni vitivinicole regionali è qualcosa di molto importante. Le Denominazioni di Origine Protetta (DOP) sono effettivamente state create per la prima volta in Francia nel 1935 nella regione di Châteauneuf-du-Pape, per regolamentare e valorizzare la produzione di vini da varietà locali prodotti con alti standard di qualità, così che potessero mantenere un alto valore remunerativo e godessero di una protezione dal rischio di frodi. Tuttavia, non è tardata a emergere la consapevolezza che le DOP potevano rappresentare un forte freno all’innovazione e alla diversificazione. Questo ha portato alla creazione delle Indicazioni Geografiche Protette (IGP), regolamentazioni più flessibili e capaci di rispondere meglio alle esigenze di mercato. Non dimentichiamo che grandi innovatori italiani come la famiglia Antinori e Incisa della Rocchetta hanno dato vita all’impero dei “Super Tuscan” allontanandosi dalla tradizione vitivinicola regionale, introducendo dagli anni ’70 il taglio bordolese con varietà francesi quali Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot e Petit Verdot, mettendo sul mercato vini ormai diventati iconici, come Tignanello, Ornellaia e Sassicaia. Sta di fatto che l’Europa ha mostrato un’apertura notevole nei confronti del rinnovamento varietale: basti pensare che in Francia è stato autorizzato dal 2022 l’utilizzo di quattro varietà resistenti per produrre vini a denominazione Bordeaux (Artaban e Vidoc) e Champagne (Floreal e Voltis), per di più registrati come V. vinifera data l’esigua percentuale residua (<10%) di genoma di vite non vinifera presente negli incroci moderni di terza o quarta generazione. La stigmatizzazione del rinnovamento varietale si fa ancora più priva di solidità se si parla di uve da tavola. In questo contesto, infatti, la regolamentazione varietale è molto più flessibile e l’apertura del consumatore pressoché totale, dato che non è influenzata dal nome varietale: non si compra uva Vittoria o Italia, ma piuttosto uva che abbia un aspetto gradevole e sano e sia possibilmente apirena (senza semi), per poi ricomprare quella dal gusto più piacevole e con la serbevolezza (shelf-life) più lunga.
In secondo luogo è necessario rivedere il preconcetto su cui si fondava la messa al bando dei vitigni PIWI.
Se in Francia ancora oggi si ritrovano diversi ettari di varietà ibride sviluppate prima della seconda guerra mondiale, in Italia dagli anni Trenta erano stati banditi tutti gli impianti e le produzioni enologiche provenienti dalla vinificazione di genotipi che non fossero V. vinifera al 100%, vietandone quindi la commercializzazione (legge 376/1931). Questa drastica decisione aveva ragioni economiche importanti e fondate. Ai tempi, infatti, il reimpianto con viti americane era stato considerato la strategia più semplice per rispondere all’invasione della fillossera sul nostro territorio, che però aveva portato alla diffusione di vini di scarsa qualità, mettendo a repentaglio il valore del mercato italiano del vino. Questo infatti stava crescendo, dato che si era inserito nella falla che la piaga della fillossera aveva creato nel mercato vitivinicolo francese nei decenni precedenti. Tuttavia ad oggi questo rischio non è più attuale e questa legge non più valida. Nel 2008 la Comunità Europea ha autorizzato la produzione di vino con genotipi non 100% V. vinifera (regolamento n. 479/2008), permettendo quindi di coltivare anche in Italia varietà ottenute da incrocio interspecifico per la produzione di vini generici o IGP. Nel 2021, l’Unione Europea ha poi emanato un regolamento (2021/2117) che ammette la possibilità di inserire varietà non 100% V. vinifera nei disciplinari delle DOP, all’esplicito scopo di consentire ai produttori di utilizzare genotipi resistenti alle malattie come le PIWI. Ad oggi – come già ricordato – questi vitigni sono inseriti nei disciplinari DOP di altri Paesi europei, mentre in Italia è ancora proibito (legge n. 238/2016). Inoltre, l’Europa già dal 2013 si è fatta carico di una campagna di rinnovamento varietale in viticoltura, stanziando fondi per il reimpianto di varietà di maggiore pregio enologico o commerciale allo scopo di aumentare la competitività dei produttori (regolamento UE n. 1308/2013), includendo di fatto il sostegno anche alla transizione verso le varietà resistenti.
La ricerca scientifica come alleata: il breeding assistito da marcatori
Negli ultimi 25 anni, la ricerca ha investito notevoli risorse nello studio e nell’identificazione delle regioni genetiche, note come loci, associate alla resistenza della vite alle principali ampelopatie. Ad oggi sono stati identificati 31 loci di resistenza alla peronospora, 14 all’oidio e 3 al marciume nero, rispettivamente conosciute come Resistenza a Plasmopara vitcola (Rpv), a Erysiphe necator o syn. Uncinula necator (Ren o Run) e a Guignardia bidwellii (Rgb). Alcuni di questi loci sono associati a marcatori genetici, ovvero sequenze rilevabili tramite specifici test molecolari, che permettono di tracciare il trasferimento del locus dal parentale resistente alla progenie. Questa pratica, chiamata breeding assistito da marcatori, per prima cosa permette una maggiore precisione nella selezione rispetto ai metodi tradizionali basati solo sull’osservazione dei tratti visibili (fenotipici), eliminando l’incertezza e riducendo i margini di errore. Inoltre accelera significativamente il processo di selezione, dato che la presenza del carattere desiderato può essere rilevata già dalle prime fasi di sviluppo della pianta attraverso i marcatori molecolari, senza dover attendere che la pianta cresca e maturi per essere valutata fenotipicamente. Questo è particolarmente importante per quanto riguarda le selezioni di nuove generazioni, il cui obiettivo è combinare (“piramidizzare”) diversi loci (barriere) di resistenza contro la stessa malattia, cosa che non si traduce in una maggiore resistenza valutabile a livello fenotipico, ma rappresenta una strategia necessaria per prevenire il rischio di superamento della resistenza da parte del patogeno, garantendo una protezione più duratura e robusta dei vigneti.
Vitigni PIWI in Italia
Dal 2009 a oggi in Italia sono 36 le varietà registrate e iscritte nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite. Dato molto importante visto che anche i vini a IGP dal 2019 possono avvalersi di vitigni resistenti senza particolari restrizioni, a condizione che siano inclusi nel disciplinare di produzione (legge 238/2016). Attualmente, nove Regioni hanno già ammesso alcune di queste varietà: pioniera è stata la provincia di Bolzano nel 2009, seguita da Abruzzo, Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Marche, Veneto, Trentino. Più recentemente, Lazio, Piemonte e Campania hanno seguito questo percorso, mentre in Puglia si è ancora in attesa di approvazione.
I primi vitigni resistenti iscritti tra il 2009 e il 2014 sono stati quelli tedeschi, principalmente selezionati dall’Istituto statale per la viticoltura di Friburgo (WBI) tra gli anni ’70 e ‘80: Bronner, Johanniter, Helios, Solaris e Muscaris per i bianchi, Cabernet Cortis, Cabernet Carbon, Prior per i rossi, insieme a Souvignier Gris. Ma è dal 2015 che i centri di breeding italiani hanno iniziato a iscrivere numerose (già 20) nuove varietà resistenti selezionate sul e per il nostro territorio, votate alla produzione vitivinicola e alle condizioni pedoclimatiche italiane. D’altronde per plasmare la viticoltura di domani, il miglioramento genetico si prospetta di selezionare il miglior rapporto tra genotipo e ambiente in funzione dell’obiettivo enologico.
L’Università di Udine, in collaborazione con l’Istituto di Genetica Agraria (IGA-Tech) e i Vivai Cooperativi Rauscedo (PN, Friuli-Venezia Giulia), ha guidato l’iniziativa utilizzando donatori di resistenza selezionati in Ungheria. Questi donatori sono stati incrociati in una prima tranche con varietà nobili di interesse nazionale e internazionale, come Tocai Friulano, Sauvignon Blanc e Pinot Blanc, Cabernet Sauvignon, Merlot e Pinot Noir. Questo ha portato nel 2015 all’iscrizione di cinque varietà PIWI a bacca rossa (Cabernet Eidos, Cabernet Volos, Merlot Khorus, Merlot Kantus, Julius) e cinque a bacca bianca (Fleurtai, Soreli, Sauvignon Kretos, Sauvignon Nepis, Sauvignon Rytos). Successivamente, in una seconda tranche, nel 2020 sono state iscritte altre quattro varietà ottenute da incroci con Pinot Blanc (Pinot Iskra e Kersus) e Pinot Noir (Pinot Kors e Volturnis).
Nello stesso anno sono arrivate le prime selezioni piwi della Fondazione Edmund Mach (FEM, TN, Trentino-Alto Adige), che da una parte ha puntato su varietà storiche del Trentino come Teroldego e Nosiola incrociandole con il donatore di resistenza Merzling, e iscrivendo così due vitigni rossi (Nermantis e Termantis) e uno bianco (Valnosia), mentre dall’altra si è orientato verso il mercato sempre più attraente delle basi spumanti, incrociando due varietà resistenti per selezionare un vitigno a bacca bianca (Charvir). Inoltre, grazie al Consorzio Innovazione Vite (CIVIT), creato dal sodalizio tra FEM e l’Associazione Vivaisti Viticoli Trentini (AVIT), sono state anche valutate e iscritte due varietà PIWI selezionate in Ungheria presso l’University of Horticulture and Food Industry (Pinot Regina e Palma).
Sarebbero invece arrivate quest’anno quattro nuove varietà dalla FEM dal carattere più internazionale e selezionate anche per la maturazione tardiva, due bianche vocate alla spumantizzazione e due rosse, mente si attende la varietà Glaurum, selezionata dal Centro di Viticoltura e Enologia del Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’Analisi dell’Economia Agraria (CREA-VE) di Conegliano (TV, Veneto) come alternativa alla Glera nella Regione del Prosecco. La loro registrazione è stata però fermata dalla nuova regolamentazione approvata nell’autunno 2021 (Decreto Legislativo 2 Febbraio 2021 n° 16) che prevede che i quattro anni delle prove DUS (Distinctiveness, Uniformity, Stability) siano gestite dall’ufficio esaminatore del Community Plant Variety Office (CPVO) presso lo stesso CREA-VE di Conegliano, anzichè dall’ente proponente. Questo iter purtroppo ha comportato un ulteriore ritardo per le selezioni che avevano già completato le DUS nel 2023, aggiungendo ulteriori quattro anni al processo di registrazione e richiedendo investimenti significativi per genotipi che potrebbero non superare le prove. Ciononostante, a dimostrazione del crescente interesse per le opportunità offerte dai vitigni PIWI in tutta Italia, è da notare l’attività di collaborazione della FEM con numerosi enti pubblici e privati per incrociare donatori di resistenza con varietà regionali, come il Lambrusco in Emilia-Romagna, il Verdicchio nelle Marche, lo Chardonnay in Lombardia, la Corvina in Veneto, il Sangiovese in Toscana (CREA-VE, Arezzo) e le uve da tavola in Puglia (CREA-VE, Turi, BA). Attualmente, la superficie vitata italiana è di oltre 600.000 ha, mentre quella destinata alle varietà resistenti è ancora limitata, con poco più di 2.000 ha. Tuttavia, il numero di produttori di vini ottenuti da varietà resistenti in Italia è in aumento, superando le 220 aziende, per un numero totale di etichette in crescita, dalle 364 del 2023 alle oltre 400 del 2024, molte delle quali vengono valutate da 30 commissari nell’annuale “Rassegna dei vini PIWI” organizzata dalla Fondazione Mach. Chiaramente, il numero di etichette aumenta in funzione della diffusione di superficie potenziale d’impianto, e quindi dell’approvazione delle nuove varietà nelle diverse Regioni.
A cura di: Paola Bettinelli, Marco Stefanini e Silvia Vezzulli – Grapevine Breeding and Genetics Unit Fondazione Edmund Mach
© fruitjournal.com