Con Valter Fiumana, agronomo e tecnico di Agrintesa, abbiamo analizzato come gestire le due patologie che colpiscono l’actinidia: cancro batterico e moria del kiwi. Interventi fitosanitari, sintomi, diffusione al Sud: ecco tutti i dati.
Come si può intervenire nell’uno e nell’altro caso? Come gestire? Ci sono specifici interventi fitosanitari da adottare?
Una volta che si manifesta la moria – dal punto di vista fitosanitario – non abbiamo armi particolari. Per questo è necessario lavorare in anticipo: occorre realizzare un impianto con una buona baulatura, cercare di arricchire il suolo con sostanze organiche, gestire bene l’irrigazione, installare tensiometri che – a seconda della porzione di terreno interessata – rilevino i valori di umidità, e l’acqua a disposizione.
Per il cancro batterico, invece, oggi abbiamo linee di difesa che, se adottate, permettono di gestire l’eventuale comparsa della malattia. Ad esempio, come accennato prima, l’uso di sali di rame. Anche per il cancro batterico, però, un’ottima arma a disposizione è garantita dall’adozione di corrette pratiche agronomiche. Ad esempio: occorre tagliare e bruciare i tralci colpiti dalla batteriosi, soprattutto è necessario fuori dall’impianto nel periodo invernale, quando si effettuano le potature. Risulta fondamentale anche utilizzare del mastice per coprire e proteggere i tagli più grossi.
Unendo all’intervento fitoiatrico, una corretta gestione agronomica si possono così quantomeno ridurre gli attacchi batterici.
Anche se gli stessi batteri lavorano molto in funzione del clima: quando si hanno primavere o autunni molto umidi e piovosi, è bene che gli agricoltori si attivino prontamente per la prevenzione. In particolare, con l’impiego di sali di rame prima delle piogge, appena staccati i frutti o durante la caduta delle foglie, al fine di contrastare in principio l’insediamento del batterio.
Quali sono e come si riconoscono i sintomi?
Fortunatamente i sintomi del cancro batterico si riconoscono facilmente perché si hanno degli spot fogliari visibili sulla pianta già in tarda primavera. Inoltre, se il batterio riesce a penetrare nel legno, nella ripresa vegetativa della primavera successiva, essendo questo un batterio vascolare, si manifesterà con delle fuoriuscite di melata di colore rosso.
Per quanto riguarda invece la viridiflava, si possono verificare attacchi in pre-fioritura sia sui germogli che sui fiori, i quali aggrediti, anneriscono e cadono. Quindi il produttore può distinguere facilmente di cosa si tratta. D’altro canto ormai la batteriosi, essendo emersa da diversi anni, appare più facilmente riconoscibile: in caso di sospetti, infatti, per avere conferme e individuare la causa del cambiamento vegetale, è possibile fare un’analisi dei batteri su una porzione di germogli in laboratorio che chiarisce immediatamente se si è in presenza di cancro batterico. Per quanto riguarda la moria, invece, essendo causata da molteplici fattori, l’evoluzione della malattia è molto rapida e spesso si assiste direttamente alla perdita dell’apparato radicale della pianta. La speranza è comprendere, quanto prima, le cause specifiche che possono scatenare la moria, al fine di poter intervenire tanto nella prevenzione quanto poi nell’eventuale cura.
Dal punto di vista della diffusione, come gestire la situazione al Sud?
La zona più colpita sembra il Lazio, in particolare la zona di Latina in cui si stimano 1000-1500 ettari di kiwi colpiti da moria che, seppur non distrutti, presentano ora grandi limitazioni. È bene comunque sottolineare che proprio in agro di Latina è presente la maggior produzione di actinidia. Purtroppo, però, si inizia a riscontrare qualche caso in Calabria, soprattutto in terreni non idonei o dove ci sono ristagni di acqua. Normalmente, infatti, dove i terreni sono più sciolti si riscontrano meno problemi. In Puglia – dove comunque non ci sono molte coltivazioni di actinidia – casi di moria sono del tutto assenti. Per quanto riguarda Latina, pensiamo che a determinare la diffusione di moria sia stata una eccessiva distribuzione dell’acqua. A questo, vanno però sicuramente aggiunte le piogge che si sono susseguite tra aprile, maggio e novembre 2019. In alcune zone, infatti, si sono rilevati anche 500mm di pioggia in un mese, in un momento in cui la capacità di campo non riusciva a contenere tutta quell’acqua.
Sulla base anche del fattore climatico, a suo avviso, le due malattie del kiwi hanno registrato una evoluzione nel corso degli anni?
Sicuramente. Queste malattie sono influenzate in larga parte dai cambiamenti climatici. Un suolo ha buona capacità di campo se riesce a trattenere dai 20 ai 30 mm di pioggia. Dopo anni di piovosità molto basse, oggi si assiste a eventi molto estremi: si passa cioè da periodi caldo/aridi a vere e proprie bombe d’acqua. Questo comporta un accumulo di acqua nei campi che, anche nei casi in cui si è lavorato adeguatamente, appare difficile gestire. Nella coltivazione di kiwi una situazione simile determina gravi problemi. Per questo è importante adottare una serie di strategie agronomiche che tutelino e preservino i terreni:
- sistemare i terreni con fossi e capifossi, in modo da far circolare bene le acque;
- realizzare le baulature all’interno dei frutteti; piantare le piante con il colletto in alto;
- garantire un apporto elevato di sostanze organiche al terreno;
- costruire una struttura del suolo al fine di trattenere l’acqua quando necessario ed evacuare in casi di esubero.
In definitiva, quindi quali sono i consigli che sente di dare agli addetti al settore su come gestire queste patologie del kiwi?
Per la batteriosi, suggerirei di affidarsi a dei tecnici in modo da ottenere un protocollo di difesa in prevenzione che ci possa far convivere con questa malattia.
Per la moria, invece, il consiglio che mi sento di dare è di accertarsi, prima di fare un impianto, che il suolo sia idoneo e che la struttura abbia fossi e capofossi che permettano di evacuare bene l’acqua. Poi, ovviamente, se si intende adibire ad actinidia un terreno che fra argilla e limo supera il 50-60% della sua struttura, sconsiglio di mettere a dimora questa coltura perché comporterebbe per l’agricoltore molteplici difficoltà.
Ilaria De Marinis
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