Singolare, redditizio e ancora poco conosciuto, il carrubo (Ceratonia siliqua) sta vivendo una vera e propria rinascita. Complici i cambiamenti climatici, in tanti stanno rivalutando questa specie che – anche grazie all’industria di trasformazione – sta così tornando alla ribalta, con quotazioni di mercato in crescita e produzioni in aumento.
Con l’imperversare dei cambiamenti climatici, diverse sono oggi le specie da frutto minori che stanno andando incontro a un processo di rivalutazione e riscoperta, grazie anche alle caratteristiche di rusticità e resistenza alla siccità manifestate.
Tra queste spicca il carrubo, frutto singolare, utile e poco conosciuto nel panorama delle piante coltivate in Europa, ma che rappresenta una risorsa preziosa per gli agroecosistemi mediterranei.
Il carrubo: una risorsa per il Mediterraneo
Questa leguminosa è diffusa esclusivamente nel bacino del Mediterraneo, con una produzione ormai ridotta a circa 150mila tonnellate su base annua. La ripartizione tra i Paesi produttori vede il Portogallo in testa, seguito da Italia, Marocco, Turchia.
Per quanto riguarda il territorio nazionale, la Sicilia è la maggiore produttrice con una diffusione su 5.470 ettari su 5.581 ettari totali (dati Istat 2020), e oltre il 90% della superficie concentrata tra le province di Ragusa e Siracusa. Segue la Puglia, dove il carrubo rappresenta oggi una valida alternativa, specialmente in territori come la Piana degli olivi monumentali, compromessi dall’avanzata della Xylella.
Infine, quantitativi decisamente minori si registrano anche in Campania e nel Lazio, dove – però – molto spesso non sono nemmeno lavorati.
Le cultivar più diffuse sull’Isola sono: Latinissima (conosciuta anche come Giubiliana, Cipriana, Masculina), Racemosa (nota anche come Moresca, Carruba spada, Sciabulara), Saccarata (Latina, Fimminedda, Milara), Falcata (Fauciara, Francisa), Pasta, Ermafrodita Sangimignana, Ermafrodita Tantillo.
Altrettanto variegata si presenta poi la selezione varietale pugliese. Lavori condotti una cinquantina di anni fa in Puglia testimoniavano, infatti, la presenza di: Amele di Bari, Cavallaro, Schiovinesca, Sottile, Triggianesca, Cavallaro II, Cotta, Grossa, Piccia luce, Sottile, Falcata, Trigianese, evidenziando ancora una volta l’ampia biodiversità del carrubo.
A tal proposito, emerge oggi l’esigenza di conservare razionalmente il germoplasma della specie e di selezionare cultivar a duplice attitudine.
Impianti e operazioni colturali
Dal punto di vista degli impianti, attualmente questi sono spesso promiscui con piante di età diverse. Il carrubeto razionale dovrebbe essere a sesto con impianti fitti fin dove possibile (100-200 piante/ha) e con impianto di irrigazione, perlomeno di soccorso per evitare ritardi nell’entrata in produzione.
Per le operazioni colturali bisogna considerare che il ciclo vegetativo si ripete anno dopo anno, mentre quello produttivo va dall’induzione a fiore in primavera-estate per arrivare allo sviluppo del frutto nell’anno successivo.
Dal punto di vista fisiologico, si tratta di una specie caratterizzata da particolari meccanismi di adattamento a condizioni di stress idrico. Questi adattamenti contribuiscono alla fama di pianta rustica di cui gode, derivante anche da un apparato radicale possente e capace di colonizzare il suolo sia in profondità che in volume.
D’altra parte, i caratteri di interesse per la pianta sono molteplici. Dal portamento all’epoca di entrata in produzione, dalla produttività alla facilità di abscissione del frutto per l’introduzione della raccolta meccanizzata, dalla tolleranza a freddo e malattie (soprattutto oidio e più di recente lo Xylosandrus compactus) alla resa nelle diverse componenti e qualità del seme.
Quotazioni in crescita
A trainare la progressiva riscoperta di questo frutto, la farina ricavata dai suoi semi, largamente impiegata dall’industria alimentare. Basti pensare che, a livello mondiale, la produzione di farina di carrubo fa volare l’Italia tra i primi cinque Paesi produttori.
Nonostante il limitato numero di aziende operanti nel settore, questo prodotto ha progressivamente raggiunto quotazioni incredibili, tanto da fare in assoluto del carrubo una delle colture più redditizie. Se storicamente un chilo di farina di carrube era pagato dai 20 ai 50 centesimi, negli ultimi due anni ha infatti raggiunto anche i 3,30 euro il chilo.
Il crescente interesse per questo prodotto si deve alle molteplici proprietà di cui gode: priva di glutine, la farina viene utilizzata come addensante, emulsionante, stabilizzante e gelificante naturale nell’industria alimentare.
Nel frutto ancora non maturo sono inoltre presenti catechine e gallotannini a cui è riconosciuto un valore nutraceutico, mentre nella polpa è presente un elevato quantitativo di zuccheri. Tuttavia, è proprio la polpa a trovare meno spazio di mercato. Questo perché, nel tempo, essendo stati prediletti i semi della pianta, sono state avvantaggiate quelle realtà in cui non è stata mai fatta una selezione varietale, ma dove il carrubo è sempre rimasto una pianta selvatica. Esemplare in tal senso è il caso del Marocco, che oggi risulta il maggiore produttore mondiale. Diversamente, in Italia si è portata avanti una selezione di varietà di carrubo secondo i quantitativi di polpa che ogni cultivar era in grado di produrre, tale per cui non si trova oggi la richiesta sufficiente.
In generale, bisogna sottolineare che – per quanto si stia investendo – al momento i quantitativi prodotti sul territorio nazionale risultano ancora largamente deficitari rispetto al necessario.
Come si è avuto modo di leggere, il carrubo può dunque rappresentare una preziosa risorsa per gli agroecosistemi mediterranei. Sarà fondamentale, però, sviluppare una migliore conoscenza delle risorse genetiche di questa specie e approfondire tutte le sue potenzialità.
Ilaria De Marinis
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