Non sembra invertire la rotta la crisi che, da ormai diversi anni, attanaglia la peschicoltura italiana. Tra problemi radicati e irrisolti e trend in calo, le analisi del settore continuano a denunciare un quadro che, anche per quest’anno, non sembra lasciare spazio a nuove speranze.
Quella 2022 per pesche e nettarine è stata una buona stagione. Ma non basta: stando all’ultimo report elaborato da Cso Italy, i dati continuano a segnare un andamento in discesa e lo spettro della crisi che avvolge il settore non sembra allontanarsi.
Nel corso dell’annata, infatti, ai prezzi sopra della media (+28% rispetto al 2021) corrisposti ai produttori hanno fatto da controparte i continui aumenti di materie prime ed energia, che hanno così vanificato la potenziale ripresa del comparto.
Inoltre, approfittando della forte contrazione della produzione spagnola a causa di gravi danni da maltempo, il mercato peschicolo italiano avrebbe potuto beneficiare di interessanti opportunità commerciali.
Secondo i dati Cso Italy pubblicati ad agosto, nel 2022 la coltivazione del pesco in Italia è stimata in circa 1,1 milioni di tonnellate. Volumi che fanno così registrare un +40% su base annua, ma una flessione del 10% rispetto alla produzione media del periodo 2016-2020.
Nello specifico, stando ai dati Ismea, l’offerta made in Italy è composta da 537mila tonnellate di nettarine o pesche noci, 469mila tonnellate di pesche e 75mila tonnellate di percoche.
Peschicoltura italiana: in un decennio -35% di ettari coltivati
A riprova della crisi in cui versa il comparto peschicolo italiano, anche i dati relativi alle superfici destinate alle colture. Nel corso degli ultimi 10 anni, infatti, sul territorio nazionale, le piante del pesco sono coltivate sul 35% in meno degli ettari. Nello specifico, si è passati dai 90.259 ettari del 2010 ai 58.467 ettari del 2021. E il trend negativo non sembra fermarsi.
A livello regionale, gli areali produttivi che hanno registrato il calo maggiore sono Emilia Romagna (dai 25.076 ettari ai 9.405 ettari), Veneto e Piemonte mentre quelle che in qualche modo sono riuscite a limitare le perdite sono Sicilia (dai 6.982 ettari ai 6.910 ettari), Puglia e Campania.
Complice il clima favorevole e i costi di produzione più bassi, si sta dunque assistendo a una sorta di meridionalizzazione della peschicoltura italiana. Bisogna tuttavia evidenziare che, per quanto la coltivazione del pesco al Sud Italia rappresenti ancora una possibilità, i margini di guadagno e le prospettive commerciali non sono così rassicuranti.
Nuove varietà per risollevare la peschicoltura italiana
Per invertire la tendenza e frenare la crisi, partire dalla ricerca e dalla scienza potrebbe essere un buon punto di partenza. Oggi, il miglioramento genetico rappresenta un’importante risorsa per migliorare il prodotto e ottenere varietà, al tempo stesso, di qualità e appetibili per il mercato.
Per il momento, però, da nord a sud, il quadro resta comunque poco incoraggiante.
La siccità e il caldo anomalo registrati già da maggio hanno rappresentato un vero e proprio freno produttivo, determinando una riduzione dell’offerta e dei calibri. E non dovrebbe andar meglio in futuro.
D’altra parte, se si guarda alla qualità dei frutti, i risultati rivelano ben altro, con pesche e nettarine eccellenti, sia in termini di caratteristiche organolettiche che di tenuta del prodotto.
Che per risollevare il comparto si debba proprio ripartire da qui?
Ilaria De Marinis
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